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IL DIAVOLO IN BLU
(DEVIL IN BLUE DRESS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 6 febbraio 1996
 
di Carl Franklin, con Denzel Washington, Jennifer Beals (Stati Uniti, 1995)
 
Cinema di un nero, interpretato da neri ma prodotto da bianchi, ispirato ad un genere creato da bianchi (il film... nero) ma con la giudiziosa intenzione di farne opera di riflessione sui problemi di neri, IL DIAVOLO IN BLU è al tempo stesso semplice e complicato, logico e contraddittorio, interessante ed in parte riuscito. Autore in odore "cult" del cinema indipendente americano, grazie al successo riportato dal precedente ONE FALSE MOVE Carl Franklin ripropone la sua formula: inserire sugli schemi gloriosi e spettacolari del poliziesco anni Quaranta quelle tematiche razziali che si tradussero proprio in quegli anni in certe rivendicazioni all'emancipazione. E prolungarne - eventualmente negli stessi luoghi (Los Angeles...) - quei significati che, come sappiamo, non hanno certo perso d'attualità.

Ecco allora una storia (non proprio limpidissima, ispirata da un romanzo contemporaneo di Walter Mosley) che ricorda quelle di Chandler e di Hawks con la ricerca di un personaggio scomparso, l'ambiguità di un committente altrettanto misterioso, il ritrovamento di cadaveri inspiegabili, la dark-lady vittima e seduttrice, il protagonista (qui investigatore suo malgrado) ricattato dalla malavita ma ancor più dalla polizia corrotta. Il tutto, su sottofondo altrettanto ambiguo della campagna politica doverosamente marcia, dove uno degli aspiranti nasconde la propria immoralità (qui pedofilia) con ogni mezzo. Ecco ancora gli schemi d'azione tipici del genere (pallottole e cazzotti ai quali i protagonisti riescono prodigiosamente a sopravvivere grazie al semplice ausilio di una buona doccia), gli ambienti cari a tutta un'epoca (locali clandestini filtrati dal fumo e dall'ambra del whisky), doppiopetti gessati da far impallidire d'invidia gli stilisti odierni. E la donna fatale (Jennifer Beals riciclata dall'ormai remoto FLASHDANCE) dagli occhioni melanconici, tailleur, spacchi, tacchi a spillo e riccioli come quelli di una Linda Darnell rigorosamente d'epoca.

Ma ecco ancora ciò che di nuovo introduce Franklin: i buoni (ma pure i cattivi) che sono di colore, un protagonista (il sempre sontuoso Denzil Washington) immigrato fra le palme coi poveracci dell'America profonda che perde il posto d'onesto operaio d'aeronautica, la sensazione immediata di essere coinvolti - come lui - in un gioco perverso di costrizioni e di sopraffazioni che gli ricordano ad ogni istante di essere negro fra bianchi. Sia che si ritrovi con una donna bianca in una situazione più che innocente, o che si confronti con le maniere spicce dei gangster per non dire degli sbirri bianchi.

L'integrazionismo di Franklin (contrariamente a quello di uno Spike Lee, costruito aggressivamente sul diritto alla differenza) è tutto basato sull'aspirazione moderata alla non-provocazione: curioso allora il fatto che il personaggio più stimolante del film finisca per essere quello di Mouse. L'amico del buon protagonista che giunge a dargli man forte dal Texas, il killer svitato e totalmente privo di scrupoli, la soluzione "amorale" che imprime una svolta inaspettata al tono del film: ora dalle parti dissacranti, barocche, assai più incondizionate di un Chester Himes.

Tutto ciò non risulta dal caso; ma, come sempre, dallo stile. Quello scelto da Franklin è fatto di immagini pulitissime, costruite con pastelli suadenti e trasparenze fumose degli interni, costumi, mobili ed automobili d'epoca impeccabilmente inserite fra i figuranti che passeggiano nelle strade, acconciature ed atteggiamenti che ricordano personaggi (come la Lena Horne che ricorda quella di Coretta, la vittima nera) culturalmente ineccepibili.

Un linguaggio sicuramente scelto per distanziarsi e far riflettere: ma che - incerto fra il rispetto delle regole del genere e il desiderio d'infrangerne delle altre - si avvicina pericolosamente all'esercizio di stile, ad un accademismo che suscita rispetto, ma al tempo stesso sfocia in un'assenza di coinvolgimento che si assimila alla freddezza. Persino il jazz - sottofondo d'obbligo - è rigorosamente d'epoca: ma vive di citazioni grammofoniche più che di allusioni viscerali.


   Il film in Internet (Google)

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